Suicidio in carcere: si impicca a 31 anni

Intervento d'inizio seduta del consigliere Francesco Errani - Consiglio comunale del 12 novembre 2012

Di seguito, il testo dell'intervento d'inizio seduta del consigliere Francesco Errani sul suicidio di un trentunenne in carcere.

“Ho 30 anni, sono dominicano ma vivo in Italia da 13 anni. Sono un ragazzo molto allegro, simpatico e molto positivo. Mi piace fare amicizia e confrontarmi con altre culture, mi piace viaggiare e conoscere il mondo. Mi considero molto combattivo e testardo. Partecipo a questa esperienza perché mi piace imparare cose nuove, poi vorrei raccontare la nostra vita qui e dare voce a tante persone che non hanno avuto questa opportunità di poter dire cosa pensano e come stanno vivendo questa esperienza. Mi piace ballare, pescare e viaggiare”.
 
Suicidio in carcere: si impicca a 31 anniQuesta l'autopresentazione di W. sulla redazione di Ne vale la pena, il periodico che viene scritto all'interno del carcere della Dozza curato da Bandieragialla. In un altro esercizio, denominato "Se io fossi", aveva scritto una breve prosa poetica immedesimandosi nell'acqua. Così scriveva "Se fossi l'acqua farei un lungo viaggio e andrei a visitare tutti quei paesi che hanno tanto bisogno di me. Inizierei il mio viaggio per tutta l'Africa, poi piano piano tutto il mondo. Se fossi l'acqua non mi farei imprigionare in quelle bottiglie così strette che non ti fanno respirare solo per fare tutti quei soldi, mentre tanta gente muore di sete. Se fossi l'acqua rimanderei indietro tutti i rifiuti che mi buttano addosso e li porterei a casa loro, così come soffro io con tutto quell'inquinamento".
 
Il suicidio di questo ragazzo è, purtroppo, l'ennesimo "evento critico" - così in burocratese vengono definiti gli autolesionismi, gli scioperi della fame, le aggressioni e tutti quanti gli episodi che richiedono un'indagine di polizia per accertarne la rilevanza penale - che ha sconvolto la vita della comunità penitenziaria bolognese. Era un ragazzo di 31 anni di origine dominicana in carcere da poco meno di un anno, la madre in Italia da 15 anni, condannato a 5 anni per spaccio di stupefacenti. Alla Dozza aveva frequentato la scuola media con ottimi risultati. Da un mese era stato ammesso ad una sezione più "aperta" del carcere e frequentava da due settimane il corso professionale per addetto alla produzione pasti. Oltre agli insegnanti e ai formatori, in questo anno lo avevano conosciuto le mediatrici culturali, la sua educatrice, un'operatrice dello sportello lavoro.
 
Tanti che tentano il suicidio vengono salvati dagli agenti di polizia penitenziaria o dai compagni di cella, senza che la cosa faccia troppo notizia. Lui non lo ha salvato nessuno ed è finito nelle statistiche del massacro al quale siamo più o meno abituati da tempo. Da gennaio, le persone che si sono suicidate in carcere sono 67: un detenuto ogni 8 giorni decide di ammazzarsi.
 
La sua morte pesa come una piuma nella coscienza collettiva. Non basta certo a convincere i benpensanti che uno Stato democratico che ti costringe in un luogo di restrizione ha il dovere preciso di garantirti condizioni di vita dignitose. Il carcere non deve punire ma deve rieducare.
 
Non so quali pensieri abbiano abitato le giornate di questo giovane uomo, in particolare le ultime giornate. Posso solo cercare di capire. Per cercare di capire non riesco a non prendere prima di tutto in considerazione la domanda: lasciar morire non è forse un modo, anche se non voluto e sicuramente più nascosto, di dare la morte?
 
Il carcere è prima di tutto esperienza di esclusione, negazione di appartenenza. Ciò comporta la perdita di autostima, la vergogna di dover offrire agli altri un'immagine degradata di sé e, progressivamente, generare la convinzione che la vita non valga più la pena di essere vissuta.
 
Se non vogliamo che il carcere sia un processo di esclusione sociale, di disumanizzazione e, di conseguenza, un indurre alla morte, scontare una pena deve poter essere un percorso che ristabilisce la giustizia e non che aggiunge un'ingiustizia. Occorre che il carcere possa essere vissuto come il dovere ma anche come il diritto di pagare per un'azione ingiusta commessa nei confronti della società di cui si è però legittimamente ancora parte e c'è la necessità che lasci intravedere una prospettiva, un futuro possibile.
 
L'esperienza del carcere deve dunque prima di tutto proporsi come un tempo di riprogettazione di vita. Che cosa significa riprogettare una vita? Significa avere una prospettiva di realizzazione professionale, abitativa, culturale e di relazioni sociali. Ci sono alcuni progetti all'interno della Dozza che confortano questa prospettiva, come l'esperienza musicale del coro diretto dal maestro Napolitano, il laboratorio sartoriale operante all’interno della sezione femminile che offre la possibilità alle detenute di imparare un mestiere, l'apicoltore per la produzione del miele, il laboratorio per il trattamento di materiali elettrici, l'officina meccanica in carcere.
 
Occorre valorizzare queste esperienze e moltiplicarle. Con quali risorse? L'Amministrazione della nostra città può e deve curare l'integrazione di una pluralità di risorse, alcune già attive, altre che possono aggiungersi: i servizi, le piccole cooperative per l'inserimento lavorativo di persone svantaggiate, il volontariato, l'Università.
 
Finalmente è stato riattivato il Comitato Locale per l'esecuzione penale e occorre non solo mettere in rete tutte le risorse e esperienze già attive, coinvolgendo prima di tutto le persone detenute nella progettazione degli interventi, ma anche trovare il finanziamento per le attività ricreative, culturali e sportive, mantenere quelle per le mediatrici culturali, lavorare per il reinserimento lavorativo valorizzando le clausole sociali e i comportamenti aziendali eticamente orientati, come anche trovare soluzioni abitative.
 
Se vogliamo costruire una politica inclusiva, serve un impegno più attivo del Comune di Bologna nelle politiche per il carcere e un serio e costruttivo confronto con le realtà di volontariato e le istituzioni cittadine, al fine di realizzare il necessario coinvolgimento progettuale che potrà fare di un ragazzo finito in carcere, un cittadino che sente di appartenere ad una comunità accogliente che ha bisogno anche di lui. E senza dimenticare che il Sindaco di Bologna è il Sindaco di tutti, anche dei cittadini detenuti.